NEL MESE DI MARZO
IL PROGRAMMA
Palazzo Chigi Saracini
Salone dei Concerti
ASCOLTO LIBERO.
INGRESSO GRATUITO
Prenotazioni: 0577 220922 / biglietteria@chigiana.org
CARTE D’ARMENIA
Alexis Avakian sax tenore
Ruşan Filiztek saz, oud, voce
Mauro Gargano contrabbasso
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Il viaggio di un popolo disegna nei secoli una geografia ben più ampia della terra da cui proviene. I suoi spostamenti tracciano una rete di itinerari e legami che si estendono per terre e per mari, annodando fra loro vite di individui e nuove piccole patrie. Ciascuna di esse custodisce una parte di memoria per tutti coloro che a quel popolo appartengono, e intorno a quella memoria si tengono uniti. Attraverso le maglie di quella rete si muovono anche le storie e le musiche che in ogni luogo di approdo incontrano altre lingue e melodie. In esse traducono i propri ricordi, perché la condivisione doni loro salvezza e futuro.
Si tracciano così nuove mappe, capaci di disegnare il diffondersi di una cultura fiorita dal seme gettato da chi è stato costretto a fuggire, o si è allontanato dalla sua terra spinto da curiosità, seguendo sogni o progetti. Come per tutti quei popoli che il fato sembra aver destinato al viaggio, la patria armena è l’insieme delle carte che la descrivono, raccontando la sua storia e la sua memoria.
Ma le carte d’Armenia sono anche dei piccoli foglietti profumati inventati da un farmacista parigino alla fine dell’Ottocento importando dal Caucaso l’usanza di bruciare resine. Un secolo il fumo odoroso delle carte d’armenia bruciate invadeva i salotti borghesi d’Occidente, evocando desideri dell’oriente immaginario raccontato dagli scrittori. La resina usata dagli armeni per profumare le loro case, tuttavia, arrivava a sua volta dalla Malesia.
Carte d’Armenia porta sul palco del Salone dei Concerti il dialogo fra quattro musicisti straordinari di diversa provenienza riunitisi a Parigi intorno al progetto del sassofonista e flautista marsigliese Alexis Avakian. Facendo i conti con le sue origini armene, Avakian ha da tempo cominciato una profonda riflessione sulla possibilità di intrecciare il linguaggio del jazz alla grammatica della tradizione musicale armena. In questa indagine lo accompagnano tre artisti di fama internazionale: Artyom Mynasyan, che con il canto commovente del duduk ci riporta immediatamente all’ombra del monte Ararat, il curdo Rusan Filiztek al saz, oud e alla voce, magnifico testimone del crogiolo di tradizioni musicali dell’Anatolia, e il contrabbassista italiano Mauro Gargano, attivo da decenni sulla scena jazzistica europea.
QUESTI BALCANI
Lidija Dokuzović voce
Goran Farkas mih, gajde, mandola, flauti, violino
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Di là da Trieste si estendono terre che per secoli sono state semplicemente l’altra sponda di un unico mare Adriatico, una distesa di acqua chiara che invita ad essere attraversata. Popoli, dialetti, sapori si rincorrevano lungo le coste. Mentre sguardi sembravano cercarsi all’orizzonte, gettati fra oriente e occidente dal Conero alle montagne che spalleggiano Zara, dalle scogliere del Gargano alle mura di Dubrovnik, fino a stringersi come un nodo alla gola fra Otranto e Valona prima di sciogliersi verso lo Jonio una volta dominato dai greci.
Nell’ultimo secolo, quel mare si è trasformato in confine. Le storie e le memorie hanno cominciato a correre parallelamente indifferenti sulle due sponde, finché le grida di dolore di una guerra fratricida e insensata hanno rotto il silenzio. Ma insieme a quelle immagini strazianti, i media hanno cominciato a trasmettere musiche e canti che hanno presto inondato le nostre piazze, facendoci ritrovare quel modo di affrontare il senso della vita che di qua dall’Adriatico avevamo dimenticato.
I Balcani ci sono sembrati di nuovo vicini: questi Balcani, con il loro mescolio incessante di racconti e il riecheggiare di melodie che sulla stessa aria trovano sempre nuove parole per raccontare le diverse sfumature di uno stesso sentimento.
Lidija Dokuzovic, nipote di un cantastorie nata a Travnik in Bosnia e cresciuta in Croazia, ha seguito l’intrecciarsi dei canti lungo i Balcani occidentali. Dopo la dissoluzione della Jugoslavia, in un panorama segnato da nazionalismi esasperati, la sua pop band Afion è stata la prima a ricantare e incidere in un solo disco melodie provenienti da ogni regione della ex federazione. A Zagabria Lidija ha costituito e diretto ensemble vocali fra cui quello delle minoranze serbe e macedoni in Croazia e “Le Zbor”, il primo coro LGBTQ nei Balcani. Animatrice insieme ad Allan Skrobe del circuito internazionale di festival dedicati alla musica tradizionale intitolati “Ethno”, Lidija Dokuzovic si è trasferita a Malmö, in Svezia, dove continua a insegnare canto e produrre musica tornando sulle sue radici.
Goran Farkas è un polistrumentista e cantante istriano attratto già in tenera età dalle tradizioni musicali della sua terra, di cui oggi è uno dei più profondi conoscitori e divulgatori. Le componenti slave, italiane, montenegrine e istroromene che attraversano e tengono unita la cultura della penisola istriana risuonano nelle polifonie della sua cornamusa (mih), nel fraseggio dei doppi flauti e del suo violino. Cresciuto accanto a Dario Marusic, capofila della ricerca sulla prassi musicale tradizionale istriana e friulana, nel castello di Pazin Goran ha dato vita all’esperienza di TradinEtno, una associazione che promuove la conoscenza della musica tradizionale e la world music collegandola al rispetto dell’ecosistema ambientale di cui è spesso il riflesso. Proprio con TradinEtno, più di dieci anni fa ha incrociato il percorso di Lidija Dokuzovic.
IL SOLE A MEZZANOTTE
Pär Näsbom violino
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Torbjörn e Pär Näsbom sono due fratelli svedesi. Cresciuti in una famiglia di musicisti, hanno condiviso fin da bambini la pratica della musica classica, portata ad alti livelli professionali, e l’amore per la tradizione popolare scandinava, di cui conservano l’antico repertorio degli spelman (suonatori di strumenti ad arco), fatto di danze dal ritmo contagioso e toccanti meditazioni sul ricordo e la lontananza, gli affetti perduti e il dialogo con i suoni della natura.
Dopo essersi diplomato in violino al Conservatorio Reale di Bruxelles, Torbjörn Näsbom ha trovato impiego come orchestrale a Umeå, città della Svezia settentrionale affacciata sul Golfo di Botnia. Tuttavia, ha subito manifestato il suo interesse per la nickelharpa, strumento della tradizione svedese diffusosi in tutta Europa nel Medioevo e giunto più o meno intatto fino ai nostri tempi. Talvolta è possibile trovarla dipinta sulle tavole gotiche toscane imbracciata da angeli che celebrano suonando la Vergine Maria con Gesù Bambino.
Torbjörn ha cominciato immediatamente a provocare gli ambienti più conservatori tanto della musica colta quanto di quella popolare, utilizzando la nickelharpa per suonare anche la musica barocca e apportando delle modifiche allo strumento per aprirlo ad altri repertori. In breve tempo, Torbjörn Näsbom è divenuto un virtuoso e maestro riconosciuto a livello mondiale, pur mantenendo un rapporto schietto e genuino con le sue radici, tanto da essere un punto di riferimento per le generazioni successive di musicisti che si accostano alla memoria della musica scandinava e alla sua ri-creazione nell’ambito del folk contemporaneo.
Dopo aver essere stato per più di trent’anni il secondo violino nel Musikkollegium Winterthur – la più antica orchestra sinfonica svizzera, in forze all’Opera di Zurigo – e membro del prestigioso Winterthurer Streichquartett, dal 2008 Pär Näsbom ha ricominciato a esibirsi con il fratello Torbjörn in varie formazioni dedite alla musica tradizionale che coinvolgono anche strumentisti provenienti da altri paesi europei, ritrovando pienamente il gusto per quelle sonorità degli archi che sanno essere aspre e dolci, glaciali e intense, profonde e travolgenti.
In un susseguirsi di polske, altre danze, inni della tradizione, e musiche di J.S. Bach, gli spettatori saranno condotti per mano in una immaginaria veglia di primavera inoltrata all’estremo nord del nostro continente, laddove in quel periodo dell’anno di notte il sole sembra esitare sull’orizzonte, come se non volesse più andare più a dormire.
BACH IN BLACK
Achille Succi clarinetto basso
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«Bach è il padre» aveva detto Wolfgang Amadeus Mozart riferendosi a Carl Philipp Emanuel. È lecito chiedersi chissà cosa pensasse del padre di quest’ultimo, Johann Sebastian, di cui trascrisse per archi l’Arte della Fuga e alcuni preludi e fughe.
In effetti, sebbene sarebbe errato attribuirne a lui solo l’invenzione, nella musica di Johann Sebastian Bach si ritrovano gran parte delle soluzioni impiegate dalle successive generazioni di compositori e giunte sottotraccia perfino nella nostra popular music. Queste trovate ingegnose si celano però dietro il discorso musicale di Bach, talmente fluido e consequenziale da apparire trasparente, naturale, al di là di ogni difficoltà o complicazione. Per far emergere le ragioni della geniale bellezza del pensiero musicale bachiano è necessario rileggere la sua musica da infiniti punti di vista, anche quelli più obliqui e inusuali. Come aveva fatto Mozart.
E come fanno il sassofonista Mario Marzi, maestro indiscusso dello strumento nel campo delle musiche eurocolte, e Achille Succi, sassofonista e clarinettista, campione del jazz italiano, incrociando i loro sguardi e le loro sensibilità sulla scrittura di Johann Sebastian Bach. Le polifonie imprigionate nella voce di uno strumento solo, come nel caso delle suite per violoncello, o delle sonate e partite per violino, flauto o liuto, con Marzi e Succi possono finalmente liberarsi dalle costrizioni della partitura e librarsi sonoramente davanti alle orecchie dell’ascoltatore. Con loro, le invenzioni a due voci esprimono in concreto le dinamiche di un dialogo, mentre i preludi e le sinfonie rivelano la ragione di esperimenti armonici serviti a istruire la sensibilità dell’ascolto musicale moderno.
Ma Marzi e Succi fanno di più: mettono la musica di Johann Sebastian Bach fra due specchi posti uno di fronte all’altro che, riflettendosi reciprocamente, permettono di vedere simultaneamente il volto proprio delle composizioni e ciò che si sviluppa alle loro spalle. Marzi e Succi non solo ci fanno capire meglio e in profondità i meccanismi del discorso bachiano, ma lo aprono all’improvvisazione tradendo la scrittura originale per mostrarci come è possibile rileggerlo e dargli un altro futuro possibile, ben lontano dalla banale pronuncia swingante delle lunghe sequenze di note. In questo gioco di riflessi, i principi compositivi di Bach vengono impiegati da Succi e Marzi per creare nuova musica che nasca dall’improvvisazione. E a sua volta l’improvvisazione si offre come occasione per esplorare la nostra memoria musicale, in cui i temi di Bach riemergono dal profondo e si intrecciano rispondendo l’uno all’altro in nuove invenzioni a due voci.
Apprezzato dai più importanti direttori d’orchestra del nostro tempo, Mario Marzi collabora da più di venti anni con il Teatro e la Filarmonica della Scala, e con il Maggio Musicale Fiorentino. Si è esibito come orchestrale e in veste di solista sui palchi di tutto il mondo. Ha inciso per le più importanti case discografiche, fra cui BMG, Sony Classic, EMI, e tiene masterclass fra Europa, Stati Uniti, Sud America e Australia. A lui sono dedicate alcune fra le più significative composizioni per sassofono contemporaneo.
Achille Succi è una delle figure più vivaci e brillanti nel panorama del jazz italiano. La sua estrema inventività, l’apertura di idee e la capacità di ricevere e rielaborare in maniera originale stili e repertori diversi lo ha portato a collaborare con artisti del calibro di Uri Caine, Louis Sclavis, Ralph Alessi, Ernst Reijseger, Dave Liebman.
Entrambi sono musicisti animati da una inarrestabile curiosità, che li ha spinti a lavorare insieme per dialogare con Johann Sebastian Bach, costringendolo a rivelare ciò di cui evidentemente non poteva essere al corrente: il suo lato Black.