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L’orologiaio delle meraviglie
di Paolo Somigli, Libera Università di Bolzano
Nato il 28 maggio 1923 da famiglia ungherese nell’attuale Târnăveni, un villaggio della Transilvania passata alla Romania con la fine della Prima guerra mondiale, György Ligeti ha rappresentato una delle figure più importanti, rappresentative ed originali del Novecento musicale. Attraversò tendenze compositive ed estetiche differenti, sempre con una propria fisionomia. Essa gli consentì non solo di concretizzarle in una visione personale, spesso connessa a forme di più o meno evidente riferimento alla tradizione della storia della musica, ma anche di osservarle con distacco e sottoporle talvolta a una critica severa a livello tanto teorico quanto compositivo. Di tutto ciò offre esemplificazione il percorso delle opere selezionate per il Focus 2024 dell’Accademia Chigiana.
Le basi di Ligeti affondano in una molteplicità di stimoli, legati al suo percorso formativo e alle vicende della sua terra. Nei primi anni di formazione musicale nella città transilvana di Cluj-Napoca (di nuovo ungherese fra il 1940 e il 1944) studiò in particolare gli autori del grande repertorio classico-romantico. Dopo la Seconda guerra mondiale si trasferì a Budapest e s’iscrisse all’Accademia “Franz Liszt”. Qui ebbe fra i propri docenti Zoltán Kodály, fautore della riscoperta del canto popolare ungherese come base anche della didattica, e Sándor Veress, che conferiva particolare importanza allo studio del contrappunto e della polifonia a principiare dai grandi maestri del Rinascimento. Negli stessi anni approfondì sia la figura e l’opera di Béla Bartók, morto nel 1945, sia le tradizioni musicali transilvane e rumene con un periodo di studio e ricerca in Romania fra 1949 e 1950.
La sua produzione del periodo compreso fra gli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta risulta pertanto ricca e articolata, fra recupero del patrimonio popolare ungherese (e anche rumeno), riferimenti storici e sperimentazioni. Lo testimoniano, fra le opere in programma, brani basati sulla musica popolare ungherese come Magos kösziklána (1946; ineseguito fino al 1994), Lakodalmas (Danza nuziale; 1950) e Gomb, gomb da Mátraszentimre Dalok (Canti da Mátraszentimre; 1955), i più audaci Éjszaka e Reggel (Notte e Mattino; 1955) su testi dell’amico poeta Sándor Weöres, così come, infine, opere strumentali quali la Sonata per violoncello (1948-1953), Musica ricercata (1951-1953), le Sei bagatelle (1953) e il Quartetto per archi n. 1, “Métamorphosen nocturnes” (1953-54).
Un fil rouge lega questi lavori strumentali: la recezione di stimoli provenienti da Bartók e da Kodály ma anche dalla tradizione della musica d’arte storica, l’uso del pezzo breve e un’organizzazione per episodi disposti in termini di successione e di giustapposizione. La Sonata per violoncello, che già nel titolo evidenzia l’intenzionale riferimento alla tradizione, consiste di due brevi movimenti scritti in momenti diversi (1948: Dialogo; 1953: Capriccio) per due differenti interpreti: ci mostra in maniera complementare due volti del compositore col lirismo e la melodia d’ascendenza popolare del Dialogo e la frenetica aggressività bartókiana del Capriccio. Sul pezzo breve è basata anche Musica ricercata, che in tempi relativamente recenti ha conosciuto una notevole popolarità a seguito dell’inserimento del suo secondo brano in Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick (1999). La composizione è articolata in undici episodi, con un ampliamento progressivo delle altezze impiegate in ciascuno di essi: dal primo brano, basato su una sola nota, il La, al quale in extremis si aggiunge inaspettato il Re, si perviene gradualmente all’impiego del totale cromatico nel brano finale. Solo a questo punto Ligeti svela la ragione del titolo: il riferimento al “Ricercar cromatico” dalla Messa degli angeli di Frescobaldi nei Fiori musicali. Da Musica ricercata Ligeti ricavò già nel 1953 le Sei bagatelle per strumenti a fiato. Anche il Quartetto n. 1 “Métamorphosen nocturnes”, infine, pur in una struttura in un unico movimento, procede per brevi episodi nei quali si può percepire chiara l’influenza del mondo bartókiano, a livello tanto ritmico quanto di configurazioni melodiche quanto infine di atmosfere sonore; essa convive però con reminiscenze dalla Lyrische Suite di Alban Berg: Ligeti aveva potuto visionarne la partitura nella biblioteca dell’Accademia. Non solo un filo rosso d’ordine costruttivo ma anche un destino comune lega queste opere: nessuna di esse (con la parziale eccezione delle Bagatelle) fu eseguita al tempo della propria composizione o superò le resistenze della censura per una presunta eccessiva modernità.
György Ligeti, Artikulation, Electronic Music, An Aural Score by Rainer Wehinger – Schott Music 6378-20, © 1970 B. Schott’s Söhne, Mainz [2° sistema, p. 50]
György Ligeti, Artikulation, Electronic Music, An Aural Score by Rainer Wehinger – Schott Music 6378-20, © 1970 B. Schott’s Söhne, Mainz [1° sistema, p. 52]
Il clima politico e culturale ungherese degli anni Cinquanta, infatti, era stato caratterizzato da una fase di estrema chiusura e soggezione ai dettami provenienti dall’Unione Sovietica fin circa a metà decennio e poi da un momento di maggiore indipendenza che culminò con l’insurrezione di Budapest dell’ottobre 1956. Soprattutto tra 1955 e 1956, in ambito artistico, si registrò una nuova apertura verso le correnti novecentesche: Ligeti stesso poté approfondire la musica e il metodo compositivo di Arnold Schönberg e avvicinarsi alle avanguardie contemporanee. L’intervento sovietico il 4 novembre 1956 pose fine a quella breve stagione. A dicembre, però, Ligeti riuscì a fuggire dal Paese.
La fuga dall’Ungheria comportò una radicale trasformazione artistica. Essa andò a innestarsi su tratti e caratteristiche del periodo precedente in una tensione che potremmo definire dialettica; si manifestò fra l’altro con una forma di temporaneo distanziamento da tutto ciò che potesse manifestare un legame aperto con quanto aveva caratterizzato gli anni di formazione e lavoro in Ungheria.
Finalmente a contatto diretto con le musiche e i compositori ascoltati in patria solo via radio e sovente in forma clandestina, Ligeti divenne presto protagonista della temperie di rinnovamento e del relativo dibattito. Essa trovava i propri centri propulsori nello Studio di Musica Elettronica della WDR di Colonia, dove Ligeti instaurò uno stretto rapporto con Karlheinz Stockhausen, e negli Internationale Ferienkurse für neue Musik di Darmstadt, ai quali partecipò nel 1957 come studente per tornarvi come docente già nel 1959. Alla sperimentazione elettroacustica contribuì immediatamente con due lavori capitali, Glissandi (1957) e Artikulation (1958), ai quali si aggiunge Pièce électronique n.3 (1957-58) rimasto su carta fino agli anni Novanta, quando trovò concretizzazione sonora grazie a Kees Tazelaar e Johan van Kreij dell’Istituto di Sonologia dell’Aia. Al dibattito sulle tendenze compositive, e segnatamente sulle inevitabili aporie di una composizione per intero predeterminata perseguita fino a metà decennio proprio nel contesto darmstadtiano, diede un apporto formidabile con la pubblicazione, nel 1958, di un’analisi serrata e spietata di Structure Ia di Pierre Boulez.
György Ligeti, Volumina, for organ (1961-62/rev. 1966) – Edition Peters 5983, n. 30383, © 1967 by Henry Litolff’s Verlag Ltd & Co. KG, Leipzig [pp. 1-2]
György Ligeti, Lux Aeterna (1966)- Peters Edition 5934, n. 30663, © 1968 by Henry Litolff’s Verlag [p. 1]
Nello stesso periodo, in coerenza con gli sviluppi del dibattito nel medesimo contesto, si delinea il suo avvicinamento alle forme di composizione semialeatoria e alla ricerca di nuove tipologie di notazione che andassero oltre l’indicazione dei meri parametri sonori per suggerire ambiti d’altezze, timbri, azioni da compiere da parte dell’esecutore. Straordinario esempio dell’approccio personale di Ligeti è Volumina per organo: da una parte la sua partitura può essere ritenuta emblematica della tendenza ora ricordata e da un’altra Ligeti ne evidenzia il rinvio al modello ideale della passacaglia bachiana. Di quest’opera, scritta tra il 1961 e il 1962, Ligeti realizzò una revisione nel 1966, alla vigilia della composizione di Harmonies (1967), basato su una lenta successione di aggregazioni sonore legate e primo dei suoi Due studi per organo(1969).
Il riferimento a Johann Sebastian Bach a proposito di Volumina si colloca in un quadro più ampio che, nello stesso giro di anni, vide Ligeti dedicarsi all’ulteriore approfondimento della scrittura polifonica – studiata, come si è già rilevato, fin dagli anni di formazione – fino a realizzarne un’attuazione del tutto originale, destinata a dare la cifra della sua arte. L’elaborazione contrappuntistica caratterizza infatti molti lavori degli anni Sessanta, fra i quali non si può non ricordare Atmosphères (1961), lavoro cruciale nel percorso ligetiano, nel quale il musicista offrì uno dei primi, compiuti esempi della sua “micropolifonia”. In esso, ciascuna delle 48 parti polifoniche contribuisce a determinare un effetto acustico complessivo nel quale si perde la percezione dell’entrata delle singole parti per cogliere invece una sorta di cluster controllato e caleidoscopico, di un aggregato di suoni, cioè, in lenta e continua trasformazione. Tale scrittura caratterizza anche la produzione vocale del decennio, dove Ligeti recuperò la tradizione della musica sacra attraverso lavori come Requiem (1963-65) e Lux Aeterna (1966), noti anch’essi al grande pubblico per la loro presenza in 2001: Odissea nello spazio sempre di Kubrick (1968). Lux Aeterna può essere considerata una sorta di gemmazione del lavoro precedente. Ligeti la scrisse nel 1966, dopo aver concluso il Requiem col “Lacrimosa”. La micropolifonia viene realizzata qui come in quintessenza, con una scrittura per sedici parti a cappella e un effetto di lenta, quasi statica eppure progressiva cangianza sonora, tale da rendere impercettibili o viceversa stagliate le entrate e le uscite delle voci.
La riflessione sulla scrittura polifonica e l’adozione della micropolifonia comportarono a propria volta, in connessione all’indagine sulle modalità della percezione sonora e musicale, il delinearsi un altro aspetto tipico della poetica e della musica ligetiana ovvero il fenomeno dei ritmi e delle melodie “illusori”. La sovrapposizione di moduli ritmici differenziati, così come lo spiccare di alcune altezze ripetute nel corso di un disegno continuo, determina nella mente di chi ascolta il sorgere di figure, temporalità e sovrapposizioni ritmico-melodiche ulteriori rispetto a quanto presente sul foglio. Tale esito è ottenuto con moduli ritmici o ritmico-melodici sovrapposti e caratterizzati da progressivi sfasamenti. Si origina da questa scrittura calcolata e rigorosa, alla quale Ligeti si riferisce anche mediante l’analogia col meccanismo di un orologio, un caleidoscopio ritmico-melodico che, giocato com’è sulla percezione di chi ascolta, ingabbia lo stesso ascoltatore nelle sue griglie mutevoli e allo stesso tempo inesorabili. Di questo aspetto troviamo esempi straordinari nel Kammerkonzert per 13 strumentisti (fiati, archi, pianoforte e clavicembalo; 1969-70), brano in quattro movimenti il terzo dei quali porta proprio l’indicazione di “Movimento preciso e meccanico”, così come anche in un lavoro solistico come Continuum per clavicembalo (1968): qui la velocità d’esecuzione di una sequenza ininterrotta di crome non solo genera inesauribili e cangianti figure ritmiche e melodiche con ulteriori effetti illusori di accelerazioni e rallentamenti ma “liquefà” agli orecchi di chi ascolta il suono pizzicato e metallico dello strumento in un flusso unitario; quasi lo trasfigura in sonorità elettroniche. La scrittura micropolifonica, con le relative conseguenze, si riscontra inoltre nel Quartetto per archi n. 2 (composto nel 1968 ed eseguito la prima volta a Baden Baden nel 1969), nei cinque movimenti del quale le varie caratteristiche tipiche della composizione di quest’autore convergono in una pietra miliare della musica quartettistica del Novecento, e nell’orchestrale Ramifications (1968-69): qui Ligeti dà vita a un ulteriore sviluppo della propria ricerca sul suono e prescrive che metà degli strumenti suoni “in scordatura”, ovvero accordato un quarto di tono sopra il normale. Ritroveremo tale caratteristica, realizzata in termini più complessi, nel Concerto per violino.
György Ligeti, Melodien (1971) – Schott Music 43 213, © 2013 Schott Music GmbH & Co. KG, Mainz [partitura, p. 5]
L’elaborazione degli aspetti costruttivi ora ricordati trova quindi un ulteriore punto di sintesi e allo stesso tempo di sviluppo in Melodien per orchestra (1971), nel quale Ligeti prevede – come scrive in partitura –«una varietà di tempi e articolazioni ritmiche divergenti» e la stratificazione degli eventi sonori su ben «tre piani dinamici: un “primo piano” che consiste in melodie e brevi figure melodiche, un piano medio consistente in figurazioni subordinate e uno “sfondo” fatto di suoni lunghi sostenuti».
Al clavicembalo e al suo timbro metallico Ligeti tornerà invece a fine anni Settanta con due lavori legati alla sua attività di docente di composizione ad Amburgo: Passacaglia ungherese e Hungarian Rock, entrambi del 1978. Essi sono caratterizzati da una sorta di reciproca opposizione: il primo consiste in un percorso di progressiva accelerazione su un motivo ostinato secondo la forma della passacaglia; il secondo è un brano rapido e frenetico sottoforma di una ciaccona rivista in chiave rock che approda a una conclusione lenta e rarefatta.
Il nuovo riferimento esplicito a queste forme storiche in un contesto di evidente sperimentazione mostra ancora una volta quanto permanga radicato in Ligeti l’intento di mantenere un’evidente continuità con la tradizione e al contempo come essa continui ad essere rivissuta in una visione aperta, critica e dialettica alla quale non è estranea una forma di consapevole e ironico distacco. È in tale prospettiva che si colloca l’unicum di Le grand macabre (1974-77). Essa è la sola opera teatrale scritta da Ligeti, che la pensa come una sorta di dissacrante pastiche all’ombra di una grottesca fine del mondo e vi fa convergere, con fantastica e profonda ironia, praticamente l’intera storia del melodramma.
Il riferimento alla tradizione attualizzante fino all’eclettismo e in una prospettiva sempre più apertamente post-moderna caratterizza la composizione ligetiana dagli anni Ottanta in su.
A metà decennio, Ligeti realizza il primo dei suoi tre libri delle Études per pianoforte (1985: I, 1988-94: II, 1995-2001: III). Inaugura così un ciclo di 18 brani pianistici dal virtuosismo estremo e visionario, nel quale la collocazione in una prospettiva storica che abbraccia Chopin, Liszt, Skrjabin e Debussy evidenziata dal titolo si coniuga non solo con le scoperte e sperimentazioni ritmiche ora ricordate, ma anche con le profonde suggestioni provenienti dai lavori per pianoforte meccanico di Conlon Nancarrow, le ricerche etnomusicologiche di Simha Arom e le registrazioni della popolazione centrafricana dei Banda Linda, fino al gamelan giavanese (Galamb Borong) o alla scultura di Constantin Brâncusi (“Coloana infinită”).
Foto di scena da Le grand macabre (1974-77/ rev. 1996) Musica: György Ligeti, Libretto: György Ligeti, Michael Meschke, Teatro dell’Opera di Roma, Stagione 2009, Direzione d’orchestra, Zoltan Peskò; Regista, Alex Ollé, Valentina Carrasco; Scene, Alfons Flores; Costumi, Lluc Castells. [In ordine, da destra: Nicholas Isherwood, Astradamors; Roberto Abbondanza, Nekrotzar; Chris Merritt, Piet “La Botte”] credits: Falsini, Teatro dell’Opera di Roma.
È questo anche il periodo dei Concerti per pianoforte (1985-88) e per violino (1990-92), coi quali Ligeti offrì una sua reinterpretazione di queste forme e di questi generi storici. Cosa si debba intendere in generale col termine “concerto” lo si evince sia dalle note che il compositore scrisse già nel 1966 per il Concerto per violoncello e orchestra sia da alcune sue dichiarazioni degli anni Novanta. Nella sua prospettiva, il nucleo fondante del “concerto” è in primo luogo l’interazione, giocata su un estremo virtuosismo, di un solista con altri strumenti o con l’intera orchestra. Nondimeno, nei concerti ligetiani altri aspetti caratteristici del genere di tipo organizzativo e formale risultano entrare in gioco, assieme ad ulteriori elementi che attengono al rapporto del compositore tanto con la storia della musica quanto con la sua contemporaneità.
György Ligeti, Konzert für Violine und Orchester – Schott Music 47 700 – © 1992 Schott Music GmbH & Co. KG, Mainz 47 700 [partitura, p. 27]
Esemplare, da questo punto di vista, è il Concerto per violino che apre la rassegna. Composto su impulso del violinista Saschko Gawriloff, conobbe due versioni: alla prima in tre movimenti del 1990 seguì nel 1992 quella definitiva in cinque, col riscritto di sana pianta; essi sono disposti in una successione simmetrica – i tre dispari veloci e i due pari più lenti – che lascia trasparire una nuova allusione al mondo bartókiano. In tutta quest’opera, le scelte del compositore poggiano comunque su una varietà di stimoli e sorgenti e allo stesso tempo su uno scoperto ma non scolastico rinvio a forme ed usi tipici della tradizione della musica occidentale. Ciò avviene non solo sulla base dei nomi dati ai singoli movimenti ma anche, per fare un paio di esempi, in conseguenza dell’organizzazione formale del primo movimento – che si traduce in un’essenzializzata manifestazione dei principi dialettici e costruttivi sonatistici – e della scelta di lasciare all’esecutore il compito d’inventare la cadenza finale. Si determina così una situazione complessa nella quale la musica della tradizione occidentale, nella sua articolata profondità storica, pare fungere da quadro di riferimento per scelte costruttive e sonore mirate ad andare oltre essa. Ciò avviene con vari mezzi, fra i quali si sottolineano qui l’uso del flauto di loto e delle ocarine (impiegate in un estraniante “corale” nel secondo movimento) e una sorta di “concertino” costituito, oltreché dal solista, da un violino e da una viola “in scordatura”. A differenza di quanto visto in Ramifications la diversa scordatura dei due strumenti è qui ottenuta in termini piuttosto elaborati a partire da alcuni armonici naturali prodotti dal contrabbasso.
Così, per un verso il Concerto per violino palesa chiarissimi legami con la propria tradizione, per un altro rivive quegli stessi legami con mezzi disparati e quasi li disgrega. Ciò ha indotto alcuni studiosi ligetiani, a differenza di chi scrive, a cogliere nella cadenza finale l’unico relitto della disgregazione stessa della forma concerto. In realtà Ligeti punta ad ottenere proprio la vitalità di quella tradizione da cui proviene e alla quale vuole appartenere. Per farlo, però, passa attraverso il rinvio ad una molteplicità di stimoli e provenienze non solo musicali: la geometria frattale, la matematica del caos, le arti visive con una particolare predilezione per le figure impossibili di Escher e la letteratura: frequente negli appunti ligetiani è il riferimento ad Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, amato fin dall’adolescenza. Lui stesso l’ha asserito a colloquio con la studiosa Marina Lobanova: «Io non vedo contraddizione tra proseguimento della tradizione e modernità. […] Ogni artista deve fare qualcosa di nuovo: sarebbe puro epigonismo semplicemente rifare l’antico. Ma questo non significa che si debba rompere del tutto con l’antico». Insomma, il Concerto per violino, come prima di esso il Concerto per pianoforte, “dichiara” da dove viene, non recide i legami con la propria storia e al contempo apre ad ulteriori passaggi percettibili come parte di quella stessa storia.
Di tale tensione e della ricchezza di apporti e prospettive che la caratterizza sono emblematici i lavori successivi, basati sempre più sull’apporto di stimoli differenti, come la Sonata per viola (1991-94), con l’ampiezza delle suggestioni che spazia dall’età barocca fino al jazz, e il visionario, colorato e nostalgico ciclo canoro Síppal, Dobbal, Nádihegedűveli per mezzosoprano e quartetto di percussionisti (2000). Esso ripropone per un’ultima volta il mondo fantastico tanto caro al musicista, riscontrabile anche nei Nonsense Madrigals di un decennio prima basati anche su testi di Carroll. Al contempo, con la presenza dei testi fantasiosi e nonsense di Sándor Weöres, il riferimento alla cultura nativa fin dal titolo tratto da una filastrocca infantile, l’impiego di melodie di sapore popolare e scelte compositive e sonore originali e tipiche dell’ultimo Ligeti, esso è segno tangibile della profonda e allo stesso tempo variegata coerenza del percorso di quest’autore nell’arco dei decenni.
György Ligeti è morto a Vienna il 12 giugno 2006.
III. The Alphabet / VI. A Long, Sad Tale (Lewis Carroll)